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[Zero2] kali malone. chiesa rossa. 10 dicembre

Posted: Dicembre 3rd, 2025 | Author: | Filed under: larsen | Tags: , , , , , , | No Comments »

Ci sono suoni che si ascoltano e suoni che si attraversano. Credo che la ragione per cui le cattedrali abbiano sempre cercato di dotarsi di potentissimi organi sia questa. Avere un suono in grado di attraversare i presenti, elevandoli verso spazi celesti da una parte e schiacciandoli a scomode panche dall’altra. Da una parte all’altra, come i chiodi della croce.

Kali Malone deve essere stata attraversata in maniera particolarmente drastica da qualche suono per fare la musica che fa, che potrebbe essere tanto una forma di contemplazione del divino quanto la colonna sonora di un orribile e truce sacrificio umano, verosimilmente indirizzato agli stessi déi di cui sopra. Il fatto che il suo capolavoro dello scorso anno (e che dovrebbe rappresentare il nucleo del suo concerto con l’organo di Santa Maria Annunciata in Chiesa Rossa) sia dedicato alla profanazione e intitolato All Life Long, vedete voi se prenderlo con sollievo o con timore.

 


[Zero2] Sanam. teatro 89. 21 novembre

Posted: Novembre 18th, 2025 | Author: | Filed under: larsen | Tags: , , , , , , , | No Comments »
Ci sono dei momenti in cui la musica riesce a infilartisi nelle orecchie distorcendo il segnale monocorde del mondo di merda in cui viviamo e a convincerti che no, l’umanità non è proprio da gettare tutta nel cassonetto dell’umido. Uno di quei momenti è quando si ascoltano per le prime volte i Sanam.
I Sanam che vengono da Beirut, dal Libano, da uno di quegli innumerevoli luoghi del pianeta in cui la furia omicida dell’homo sapiens, del colonialismo occidentale nello specifico, dà il peggio di sé senza né sosta né vergogna. I Sanam che tutto sto schifo lo sovrastano con un suono che dal succitato mondo di merda distilla invece un purissimo, fortissimo, liquore di pura bontà, dalla cui degustazione auricolare emergono tutti i profumi del mediterraneo, le note acide della psichedelia e un retrogusto di furia percussiva che si fa sovrastante.
I Sanam che, se fanno l’effetto che fanno a sentire i loro dischi, chissà dal vivo cosa diavolo succede. Poi il mondo resterà ancora quella putrescenza lì, ma intanto ricordarsi ogni tanto che il bello esiste e che è così forte non può che essere un primo passo per riscrivere il resto della storia.

 


[Zero2] Circuit des yeux. arci bellezza. 20 novembre

Posted: Novembre 18th, 2025 | Author: | Filed under: larsen | Tags: , , , , | No Comments »

Se dovessi dirla tutta, non saprei mai spiegare cosa ci trovo nei dischi di Haley Fohr, meglio nota come unico membro della one-woman-band chiamata Circuit des Yeux, figuriamoci scrivere un articolo al riguardo. Perché la musica di Circuit des Yeux non ha nulla di originale, non c’è un istante in cui ti faccia spalancare i timpani di stupore e curiosità, che sia nel suo fragile passato chitarroso o nel più cavernoso presente digitale. E allora perché continuare ad ascoltarla e ad apprezzarla? Certo, Haley ha una voce ultraterrena, una di quelle che voci da cui vorresti sentire cantare qualsiasi cosa, anche un jingle pubblicitario. Ma non basta. Il fatto è che la musica di Circuit des Yeux, continuo stuzzicare la sensibilità di chi ascolta, non parla alle orecchie. Andrebbe ascoltata con un altro organo, collocato suppergiù in mezzo alla cassa toracica, tra la cistifellea e il diaframma. Il luogo delle sensazioni delle ferite più profonde, quelle in cui sguazza l’angoscioso canto di Haley Fohr, con una carta da giocare che, quella sì, non ha quasi nessun altra: il jolly della catarsi.


[Zero2] Linecheck 2025

Posted: Novembre 15th, 2025 | Author: | Filed under: larsen | No Comments »

E così anche Linecheck ha superato i dieci anni di vita, una cifra intorno a cui girano diversi festival milanesi di ultima generazione, quelli nati nel decennio dannato degli anni ’10, quando la città si leccava ancora le ferite del tracollo dell’ondata creativa che l’aveva interessata tra i ’90 e i primi anni del nuovo millennio. Poi c’è chi si è rimboccato le maniche ed è ripartito, cambiando strade.

Linecheck esiste da dieci anni eppure forse lo si è sempre dato un po’ per scontato, per via di quella sua natura ibrida, un po’ convegno, un po’ vetrina e un po’ sì, anche festival. Non è mai stato facile incastrarsi in Linecheck, e probabilmente è questo che ne ha plasmato l’identità: un’identità transitoria, in costante aggiustamento, come è naturale che sia già dal suo nome. Si provano i canali: qualcuno va, qualcuno gracchia, qualcuno proprio no, c’è il cavo rotto. Un costante tentativo che guida la ricerca in direzioni sempre più ampie, e l’edizione 2025 sta qui a dimostrare quanto si sia ampliato lo spettro di Linecheck nel corso di un decennio.

Il cuore di quest’edizione è infatti la collisione, l’incontro di traiettorie diverse tra arti, visioni ed esperienze. Nel programma della settimana quindi convivono, ad esempio, i synth cosmici di Kaitlyn Aurelia Smith, il post punk radicale del duo Bono/Burattini con il lo-fi pop delle Feste Antonacci; i bassi dritti in pancia di Sega Bodega o Joy Orbison con le sperimentazioni al violoncello di Lucy Railton e la straordinaria riscrittura sacrilega con cui Niño de Elche sta facendo esplodere di nuove vite il flamenco. A rendere ancora più forte queste collisioni c’è la collaborazione con il contemporaneo festival performativo Farout, il cui programma si riempie di musica grazie alle presenze di OvO, Laura Agnusdei e Katatonic Silentio.

Uno, due, tre, prova.


[Zero2] Jazzmi 2025

Posted: Ottobre 8th, 2025 | Author: | Filed under: larsen | Tags: , , | No Comments »

Parcheggi abusivi, applausi abusivi. Appalti truccati, trapianti truccati e motorini truccati. Sono trascorsi 30 anni dalla dirompente Terra dei cachi di Elio e le Storie Tese, eppure a rileggerne l’incipit oggi sembra ancora una descrizione accurata della Milano del 2025, forse con solo le e-bike al posto dei motorini, strumento di lavoro essenziale di chi è costretto da una “città che corre” a correre ben più veloce delle proprie possibilità. Non ci voleva molto, a dire il vero, a ipotizzare la direzione distruttiva imboccata dalla città con il passaggio di secolo, e non ci voleva molto a vedere i frutti di questo vorace estrattivismo espulsivo, ma ora che è sotto gli occhi di tutti, ora che i cittadini si sono visti scippati addirittura del loro storico stadio, vale la pena ancora una volta ripensare a ciò che si è continuato a muovere sotto – o di fianco – allo spesso strato di cemento e lamiera che ha strangolato Milano. E se in vetrina luccicano insostenibili torri olimpiche, sommersa dal fragore degli applausi abusivi c’è ancora tanta musica che si agita, scalcia, a suo modo resiste. Porta “fiori, fiori dappertutto”, come si annuncia nella sua nuova edizione JAZZMI, una rassegna arrivata al suo anno dieci, ed è un traguardo clamoroso se si pensa al decennio durissimo attraversato da Milano.

Dieci anni sono una cifra matura per un festival. È l’età in cui lo slancio rivoluzionario giovanile lascia definitivamente il passo all’età adulta, quella fatta di abitudini e di piccole comodità. Con una rara dose di saggezza, JAZZMI non rinnega questo aspetto dell’invecchiamento e non ha paura alcuna di sedersi nelle sue zone di comfort, ma anche in quelle, vuoi per una scintilla, vuoi per un bicchiere di troppo, capita di voler ribaltare tutto e di spalancare le finestre alla più sporca contaminazione. Se ci pensate bene, la storia stessa del jazz non è andata poi troppo diversamente. E il bello è che quando la finestra la spalanchi non sai mai cosa arriverà, magari un alito di vento o magari un energico fragore.

Ci sono tanti nomi a cui siamo abituati a JAZZMI o sulle strade più convenzionali del jazz: andiamoli a sentire perché sanno ormai bene che corde toccare. Ma ci sono anche nomi diversi, sgattaiolati dentro da pertugi e finestre inattese, e come sempre sono soprattutto questi i concerti a cui affidarsi, perché magari deludono ma è assai più facile che scatenino il vero stupore. Torniamo a farci stregare il cuore, come ogni volta, dai Necks, da Shabaka, dai Kokoroko o da Marc Ribot. Facciamoci la nostra doverosa dose di sculettamento con Flying Lotus, Durand Bernarr, Takuya Kuroda o Bilal. Ma soprattutto spalanchiamo le nostre finestre allo stupore con chi ci viene regalato da JAZZMI e poi chissà quando ci ricapita. Leggende come Orchestra Baobab, Abdullah Ibrahim, Huun Huur Tu e Arrested Development; maestri come Anouar Brahem o il trio L’Antidote; nuovi viaggioni come Amaro Freitas (se non il disco più bello dello scorso anno, poco ci manca), Nubya Garcia, Mammal Hands, C’mon Tigre o Yuuf. Quanti problemi irrisolti, diceva sempre quel brano, ma un cuore grande così. Un cuore vecchio dieci anni, ma talmente in forma che chissà quanti ne ha ancora davanti.


[Zero2] Beth Gibbons. triennale. 11 luglio.

Posted: Giugno 23rd, 2025 | Author: | Filed under: larsen | Tags: , , , , , | No Comments »

A un certo punto, qualche anno fa, ho seguito un laboratorio di mantra. Niente di troppo esotico: semplicemente c’era una guida che, tra un’indicazione sulla respirazione e una spolverata di storia e simbologia induista, ci faceva sedere in cerchio e cantare tutte assieme. Non è che mi ricordi molto di quanto cantavamo, ogni tanto mi si affaccia qualche verso ma finisce lì. Ciò che mi è rimasto addosso è l’abbandono, l’avvolgente dedizione alla ripetizione e all’intonazione. Arriva al mattino, mentre preparo la colazione o do da mangiare alle galline, prende la forma di un verso di durata variabile, e mi trascina con sé per alcuni inafferrabili minuti. Quello che mi sfugge del tutto è perché capiti così spesso che quel mantra sia il ritornello di “Wandering Star” dei Portishead. La cosa più stramba di tutto ciò è che questa cosa è cominciata nel 1994, quando frequentavo le superiori e ignoravo ancora quel poco che poi ho scoperto sui mantra.

Trent’anni più tardi, e a 16 anni dal terzo e ultimo cantico dei Portishead, quella voce dalla paralizzante bellezza, è tornata a risuonare in un disco. Una storia completamente diversa dai Portishead, una persona completamente diversa perché gli anni (oggi 60) passano, incidono rughe nella pelle e nell’anima, ma come scava il tempo così anche la voce di Beth Gibbons riesce sempre ad aprirsi varchi fino alle radici come allora. Difficilmente nascerà un mantra da questa nuova Gibbons, il cui cambiamento ha comportato un passaggio dall’ipnosi del trip-hop all’intreccio oscuro di questa specie di folk, ma il mantra non è che uno dei tanti strumenti per abbandonare il brusio del nostro incessante pensare. Abbandonarsi alla voce di Beth Gibbons può rivelarsi una pratica altrettanto valida. Di questi tempi orribili e minacciosi, nei quali si celebra la definitiva morte della speranza, si direbbe quasi una pratica salvifica, persino illuminante.


[Zero2] Acid mothers temple. arci bellezza. 19 maggio.

Posted: Maggio 13th, 2025 | Author: | Filed under: larsen | Tags: , , , , , , , | No Comments »

Gli Acid Mothers Temple compiono 30 anni. Trenta, meglio scriverlo a lettere, per rispetto e ammirazione verso un’esperienza musicale così longeva, cangiante, ma soprattutto energica. Compiono trent’anni e festeggiano nel modo per loro più naturale: si buttano su un furgone e macinano chilometri in giro per l’Europa.

Il tour celebrativo, intitolato Dark within of Astropia, si compone di 38 date consecutive, senza nemmeno un giorno di riposo in mezzo: dalla Spagna alla Gran Bretagna, passando per Portogallo e Francia, e poi giù fino in Grecia attraverso i Balcani, per poi chiudere tra Italia e Francia meridionale. Un tour che sarebbe duro per una punk band di ventenni, figuriamoci per loro che di anni ne hanno più del doppio mantenendo il medesimo stile di vita.

Ed è una vita vissuta plasmando meraviglie sempre nuove, taglienti, tra psichedelia, rumore e genuino divertimento. Giorno dopo giorno: viaggiare, suonare, sbronzarsi, ripartire. Se il conclave non fosse durato così poco, forse si sarebbe fatto in tempo a candidare a pontefice il loro driver, indubbiamente già in odor di santità. Gli Acid Mothers Temple saprebbero comporre al volo i migliori inni sacri(leghi) per celebrarlo, e poi sbronzarsi e rimettersi in furgone.


[Zero2] Arooj Aftab. triennale. 8 aprile.

Posted: Aprile 6th, 2025 | Author: | Filed under: larsen | Tags: , , , , | No Comments »

Chi la ferma, Arooj Aftab? Chi mai ci riuscirà? Di certo non il chiacchiericcio del mondo, il vociare di sale da concerti o da riunioni, la distrazione delle paura che rappresenterebbe l’antagonista naturale per un’arte così delicatamente puntuale. Perché nel suo tratteggiare grande musica, ciò che rende straordinaria Aftab è la sua capacità di cantare il silenzio, recitandolo come fosse una poesia, inserendolo come una strofa in canzoni che adottano la forma dei ghazal al solo scopo di abbandonarla.

È così che Aftab si getta come una palombara nelle profondità più insondabili, nelle oscurità della morte, della notte, dell’amore. Inarrestabile. Di certo non la fermerà l’orecchio monodimensionale dell’Occidente, per il quale la musica di Aftab, nata in Arabia Saudita da una famiglia pakistana e trasferitasi ormai da 20 anni negli Stati Uniti, è principalmente un prodotto esotico. Arooj Aftab è in realtà una straordinaria autrice di musica pop, dove con pop dovremmo indicare Cole Porter o Billie Holiday, continuando a guardarci l’ombelico, o altresì Begum Akhtar (che Aftab stessa definisce la sua Billie Holiday) o Hariprasad Chaurasia.

Un’autrice pop dalla creatività e dall’energia inarrestabili, la cui poetica non è più soltanto un ponte tra più mondi, ma proprio un mondo nuovo, in cui convivono tradizione e futuro, individualismo e divertimento. E una volta che lo si è plasmato un mondo non si può distruggerlo, al massimo solo rovinarlo. Per questo Arooj Aftab non la ferma nessuno, perché anche con tutte le luci e tutti i rumori non si possono fermare la notte e il silenzio: hanno sempre qualcosa da dire.


[Zero2] Orchestre Tout Puissant Marcel Duchamp. spazio teatro 89. 22 marzo.

Posted: Marzo 12th, 2025 | Author: | Filed under: larsen | Tags: , , , , , , , , , , | No Comments »

L’ultima, e ahimè unica, volta in cui ho avuto l’occasione di assistere a un concerto dell’Orchestre Tout Puissant Marcel Duchamp fu in un bel festival della provincia padana. Un festival istituzionale, all’aperto, con le file di seggioline in plastica che si agganciano l’una all’altra, il pubblico con le gambe accavallate e gli applausi puntuali tra un brano e l’altro. Immagino che l’Orchestre suoni spesso in questi contesti, non foss’altro per le sue dimensioni di “ingombro”, e immagino che finisca sempre allo stesso modo: con le seggioline che ben presto si ritrovano ugualmente in fila ma senza più natiche a scaldarle, e il pubblico di ogni età che si fa largo tra i corridoi di passaggio e il sottopalco per sculettare gioioso. Nulla che non accada a numerosi altri live, a tutte le volte che l’energia danzante rompe la stasi di concerti più ingessati. L’unicità del caso viene dal fatto che sia un’orchestra a rompere le righe, e ancora di più un’orchestra proveniente dalla Svizzera.

In realtà, l’Orchestre non è sempre stata davvero un’orchestra. All’inizio era soltanto un nome ironico, immagine fedele dello stile giocoso di un progetto che si ispirava a certa psichedelia pop di scuola Stereolabiana tanto quanto alle ritmiche delle feste centrafricane. Ci sono voluti dieci anni perché l’organico si allargasse così grassamente, crescendo giorno dopo giorno in quel sottobosco che non ti aspetti da una città come Ginevra. Almeno, non me lo aspettavo io, che a Ginevra non ci sono mai stato, ma che a un certo punto ho scoperto con le orecchie, esplorando paesaggi sempre sorprendenti, grazie a locali avanguardisti, festivalini radicali, etichette esplosive come Les Disques de Bongo Joe, che ha adottato l’Orchestre sin dal 2018 e che in questi stessi giorni festeggia i suoi 10 anni di vita. Il concerto dell’Orchestre arriva proprio nel bel mezzo di una festa, che ‘ginevrerà’ già dal giorno precedente, passando da un incontro e dj set nel pomeriggio da Volumebk, da cui muoversi tutti insieme, appassionatamente e con spirito di gratitudine, verso lo Spazio Teatro 89.

Qualche tempo fa ricordo di essermi imbattuto in un articolo sulle cellule totipotenti. Non ci capii granché ma rimasi colpito dall’esistenza di queste cellule che possono svilupparsi con nature diverse a seconda di ciò che richieda l’organismo in quel momento. L’Orchestre si autodefinisce “onnipotente” (omaggiando col suo nome proprio le orchestre africane), eppure è proprio alla totipotenza che mi ha fatto pensare: a una natura ibrida, indefinita, che si crea nel qui e ora di un flusso energetico e creativo. Come se tutto fosse costantemente sotto controllo e fuori controllo allo stesso tempo. O, per dirla con il titolo del loro album più bello e politico: We’re OK. But we’re lost anyway. Alziamoci dalle sedie e andiamo a perderci.

[Zero2] Fire!. spazio teatro 89. 16 marzo

Posted: Marzo 11th, 2025 | Author: | Filed under: larsen | Tags: , , , , , , , | No Comments »

Il sito dei Fire! si chiama earthwindand.com. Credo che basti questo dettaglio piccolo e allegro a spiegare come sia un progetto a sé nella sconfinata produzione musicale di Mats Gustafsson e forse dell’intera, rumorosissima, scena impro scandinava che, camminando sulle spalle dei giganti che li hanno preceduti, ha fatto a brandelli il jazz negli ultimi 30 anni. Perché se gli altri progetti del sassofonista svedese sono tutti improntati, chi più chi meno, all’uso del martello pneumatico, a un’aggressione sistematica agli schemi che ancora irrigidiscono l’improvvisazione, questo è un affresco da colori ben differenti, non per forza più caldi, ma pennellati con più disincanto, tranquillità, talvolta spensieratezza.

In Fire!, che sia nel trio abituale con Johan Berthling e Andreas Werlin o nell’ariosa sorella Fire! Orchestra arrivata a contare fino a 40 elementi, si affaccia la psichedelia, il rock, talvolta addirittura degli echi funk. Una ricetta tutt’altro che semplice da far stare assieme, a infatti non ce la fanno nemmeno loro, ma vanno avanti come hanno sempre fatto: ci provano. Fire! è un fuoco che brucia le prove di quanto fatto prima e scalda il pentolone in cui cuoce ciò che tra poco si farà, un continuo processo di tentativi, errori, meraviglie. Qualcosa che riesce ad essere sempre uguale e sempre diverso, ogni volta. Non è così anche il fuoco, in fondo?