A un certo punto, qualche anno fa, ho seguito un laboratorio di mantra. Niente di troppo esotico: semplicemente c’era una guida che, tra un’indicazione sulla respirazione e una spolverata di storia e simbologia induista, ci faceva sedere in cerchio e cantare tutte assieme. Non è che mi ricordi molto di quanto cantavamo, ogni tanto mi si affaccia qualche verso ma finisce lì. Ciò che mi è rimasto addosso è l’abbandono, l’avvolgente dedizione alla ripetizione e all’intonazione. Arriva al mattino, mentre preparo la colazione o do da mangiare alle galline, prende la forma di un verso di durata variabile, e mi trascina con sé per alcuni inafferrabili minuti. Quello che mi sfugge del tutto è perché capiti così spesso che quel mantra sia il ritornello di “Wandering Star” dei Portishead. La cosa più stramba di tutto ciò è che questa cosa è cominciata nel 1994, quando frequentavo le superiori e ignoravo ancora quel poco che poi ho scoperto sui mantra.
Trent’anni più tardi, e a 16 anni dal terzo e ultimo cantico dei Portishead, quella voce dalla paralizzante bellezza, è tornata a risuonare in un disco. Una storia completamente diversa dai Portishead, una persona completamente diversa perché gli anni (oggi 60) passano, incidono rughe nella pelle e nell’anima, ma come scava il tempo così anche la voce di Beth Gibbons riesce sempre ad aprirsi varchi fino alle radici come allora. Difficilmente nascerà un mantra da questa nuova Gibbons, il cui cambiamento ha comportato un passaggio dall’ipnosi del trip-hop all’intreccio oscuro di questa specie di folk, ma il mantra non è che uno dei tanti strumenti per abbandonare il brusio del nostro incessante pensare. Abbandonarsi alla voce di Beth Gibbons può rivelarsi una pratica altrettanto valida. Di questi tempi orribili e minacciosi, nei quali si celebra la definitiva morte della speranza, si direbbe quasi una pratica salvifica, persino illuminante.
Gli Acid Mothers Temple compiono 30 anni. Trenta, meglio scriverlo a lettere, per rispetto e ammirazione verso un’esperienza musicale così longeva, cangiante, ma soprattutto energica. Compiono trent’anni e festeggiano nel modo per loro più naturale: si buttano su un furgone e macinano chilometri in giro per l’Europa.
Il tour celebrativo, intitolato Dark within of Astropia, si compone di 38 date consecutive, senza nemmeno un giorno di riposo in mezzo: dalla Spagna alla Gran Bretagna, passando per Portogallo e Francia, e poi giù fino in Grecia attraverso i Balcani, per poi chiudere tra Italia e Francia meridionale. Un tour che sarebbe duro per una punk band di ventenni, figuriamoci per loro che di anni ne hanno più del doppio mantenendo il medesimo stile di vita.
Ed è una vita vissuta plasmando meraviglie sempre nuove, taglienti, tra psichedelia, rumore e genuino divertimento. Giorno dopo giorno: viaggiare, suonare, sbronzarsi, ripartire. Se il conclave non fosse durato così poco, forse si sarebbe fatto in tempo a candidare a pontefice il loro driver, indubbiamente già in odor di santità. Gli Acid Mothers Temple saprebbero comporre al volo i migliori inni sacri(leghi) per celebrarlo, e poi sbronzarsi e rimettersi in furgone.
L’ultima, e ahimè unica, volta in cui ho avuto l’occasione di assistere a un concerto dell’Orchestre Tout Puissant Marcel Duchamp fu in un bel festival della provincia padana. Un festival istituzionale, all’aperto, con le file di seggioline in plastica che si agganciano l’una all’altra, il pubblico con le gambe accavallate e gli applausi puntuali tra un brano e l’altro. Immagino che l’Orchestre suoni spesso in questi contesti, non foss’altro per le sue dimensioni di “ingombro”, e immagino che finisca sempre allo stesso modo: con le seggioline che ben presto si ritrovano ugualmente in fila ma senza più natiche a scaldarle, e il pubblico di ogni età che si fa largo tra i corridoi di passaggio e il sottopalco per sculettare gioioso. Nulla che non accada a numerosi altri live, a tutte le volte che l’energia danzante rompe la stasi di concerti più ingessati. L’unicità del caso viene dal fatto che sia un’orchestra a rompere le righe, e ancora di più un’orchestra proveniente dalla Svizzera.
In realtà, l’Orchestre non è sempre stata davvero un’orchestra. All’inizio era soltanto un nome ironico, immagine fedele dello stile giocoso di un progetto che si ispirava a certa psichedelia pop di scuola Stereolabiana tanto quanto alle ritmiche delle feste centrafricane. Ci sono voluti dieci anni perché l’organico si allargasse così grassamente, crescendo giorno dopo giorno in quel sottobosco che non ti aspetti da una città come Ginevra. Almeno, non me lo aspettavo io, che a Ginevra non ci sono mai stato, ma che a un certo punto ho scoperto con le orecchie, esplorando paesaggi sempre sorprendenti, grazie a locali avanguardisti, festivalini radicali, etichette esplosive come Les Disques de Bongo Joe, che ha adottato l’Orchestre sin dal 2018 e che in questi stessi giorni festeggia i suoi 10 anni di vita. Il concerto dell’Orchestre arriva proprio nel bel mezzo di una festa, che ‘ginevrerà’ già dal giorno precedente, passando da un incontro e dj set nel pomeriggio da Volumebk, da cui muoversi tutti insieme, appassionatamente e con spirito di gratitudine, verso lo Spazio Teatro 89.
Qualche tempo fa ricordo di essermi imbattuto in un articolo sulle cellule totipotenti. Non ci capii granché ma rimasi colpito dall’esistenza di queste cellule che possono svilupparsi con nature diverse a seconda di ciò che richieda l’organismo in quel momento. L’Orchestre si autodefinisce “onnipotente” (omaggiando col suo nome proprio le orchestre africane), eppure è proprio alla totipotenza che mi ha fatto pensare: a una natura ibrida, indefinita, che si crea nel qui e ora di un flusso energetico e creativo. Come se tutto fosse costantemente sotto controllo e fuori controllo allo stesso tempo. O, per dirla con il titolo del loro album più bello e politico: We’re OK. But we’re lost anyway. Alziamoci dalle sedie e andiamo a perderci.
Il sito dei Fire! si chiama earthwindand.com. Credo che basti questo dettaglio piccolo e allegro a spiegare come sia un progetto a sé nella sconfinata produzione musicale di Mats Gustafsson e forse dell’intera, rumorosissima, scena impro scandinava che, camminando sulle spalle dei giganti che li hanno preceduti, ha fatto a brandelli il jazz negli ultimi 30 anni. Perché se gli altri progetti del sassofonista svedese sono tutti improntati, chi più chi meno, all’uso del martello pneumatico, a un’aggressione sistematica agli schemi che ancora irrigidiscono l’improvvisazione, questo è un affresco da colori ben differenti, non per forza più caldi, ma pennellati con più disincanto, tranquillità, talvolta spensieratezza.
In Fire!, che sia nel trio abituale con Johan Berthling e Andreas Werlin o nell’ariosa sorella Fire! Orchestra arrivata a contare fino a 40 elementi, si affaccia la psichedelia, il rock, talvolta addirittura degli echi funk. Una ricetta tutt’altro che semplice da far stare assieme, a infatti non ce la fanno nemmeno loro, ma vanno avanti come hanno sempre fatto: ci provano. Fire! è un fuoco che brucia le prove di quanto fatto prima e scalda il pentolone in cui cuoce ciò che tra poco si farà, un continuo processo di tentativi, errori, meraviglie. Qualcosa che riesce ad essere sempre uguale e sempre diverso, ogni volta. Non è così anche il fuoco, in fondo?
Brutta cosa l’abitudine, assassino letale della gioia e della curiosità. Quante relazioni finiscono quando si lascia il potere all’abitudine? Quante idee vengono abortite in nome dell’abitudine? Ci si abitua a tutto nella vita, anche alle guerre, al clima che cambia, al fascismo, e quando ci si abitua arriva il disinteresse. E così, un giorno, ci si è abituati anche agli Zu.
Quella band che, quando arrivò, un quarto di secolo fa, ci rivoltò tutte come il più devastante dei terremoti, è diventata una presenza talmente ovvia che quasi ce la siamo scordata. Che errore! Di ovvio negli Zu non c’è mai stato nulla. Non era ovvia la loro storia, non era ovvia la loro musica, non è mai stata ovvia nemmeno la loro presenza, così frammentata in cambi di band, travagli interiori ed esteriori, impegni individuali su cotante direzioni che soltanto uno stolto potrebbe derubricarli a “progetti collaterali”.
Se c’è una band che non vale proprio la pena snobbare, a cui non è davvero il caso di abituarsi, sono gli Zu, che per ricordarcelo tornano, ancora una volta. Perché l’abitudine e il disinteresse arrivano quando le cose non ci colpiscono, quando stanno lontane dall’intimo delle vite, mentre gli Zu sono nati per colpire, anche a ceffoni, soprattutto a ceffoni, quando serve. E a noi tutti non resta che porgere ogni guancia, ancora una volta, non foss’altro come promemoria.
Ogni giorno un appassionato di musica italiano si imbatte nell’annuncio di qualche tour europeo, spulcia con dedizione le date e infine si rattrista, pensando che l’unica possibilità sia un viaggio all’estero. È storia ordinaria, che tutte ben conosciamo. C’è stato un tempo, però, e nemmeno troppo tempo fa, in cui le cose andavano in maniera ben diversa. Anni in cui anche al di qua delle Alpi arrivavano musicisti importanti, curiosi, talmente aperti da aprirsi direttamente ai luoghi e alle persone che trovavano quaggiù. E se devo fare un esempio, e lo farò perché è l’argomento di questo articoletto, il primo che mi viene in mente è Damo Suzuki.
Damo è la voce che ascoltiamo tutte quelle volte che facciamo partire quel capolavoro della Storia della Musica che è Tago Mago dei Can, band di Colonia che fu pietra angolare del kraut-rock e un giorno si invaghì di questo piccolo artista di strada giapponese che cantava in metropolitana, portandoselo immediatamente in studio. Dopo questi folgoranti esordi e una vita a lavorare negli alberghi o in piccole aziende giapponesi, Damo si scoprì un ‘trasportatore metafisico’ e tornò a imbarcarsi su una navicella sonora dando vita a quel gioiello mutante che fu il Damo Suzuki’s Network. Una band diversa (quasi) ogni volta, spesso composta da musicisti che non lavoravano assieme, senza una struttura, senza formazioni, con la voce di Damo al centro, ma un centro che si spostava insieme a tutto il resto: l’improvvisazione allo stato puro.
Una navicella sonora che ha trovato nell’Italia un punto d’atterraggio frequente e scintillante, coinvolgendo un gran numero di figure dell’underground e non solo. Alcuni di questi, specie quelli degli ultimi tour (membri di Starfuckers, Zu, Giardini di Mirò, Afterhours, Calibro35 e molti altri) si ritrovano ora a celebrarlo in musica e alcool, come piaceva a lui. Perché i frequenti incontri con Damo hanno fatto sì che fosse una fortuna essere appassionati di musica in Italia, perché da lui c’era sempre da imparare qualcosa di magnifico: il valore della sorpresa. Damo Suzuki ha lasciato la sua dimensione fisica lo scorso febbraio, chissà dove e come svolazza il suo spirito oggi, sicuramente una capatina al Bellezza il 16 gennaio se la fa, lo aspetto al bar.
Ci sono rassegne e festival che esistono, resistono, si rinnovano, senza che quasi ce ne si renda conto, forse per abitudine, più probabilmente per distrazione o bulimia da mode. La Musica dei Cieli è una di queste. Questa del 2024 è addirittura la ventottesima edizione, una cifra da record in una città come Milano che le iniziative culturali tende a sopprimerle nel giro di pochi anni di vita. Forse è stato proprio il suo muoversi sottotraccia, lontano dai riflettori e dall’ossessione del place to be, a garantire la longevità a questa rassegna.
Ma la resistenza al tempo non è l’unica delle sue fortune e forse nemmeno la più importante. Ciò che colpisce de La Musica dei Cieli è infatti la sua capacità di rinnovarsi costantemente: nata come appuntamento dedicato perlopiù alla musica sacra, oggi la rassegna accoglie un programma vasto come l’intera volta celeste, tanto che se si dovesse individuare il suo maggior pregio si dovrebbe indicare soprattutto la sua libertà. Libera dalla necessità di apparire, dall’oppressione degli sponsor e dall’omologazione agli altri cartelloni, la rassegna si apre alle scelte più coraggiose. A partire da una: la Musica dei Cieli è donna. In un programma ricco di proposte diverse, sono le voci femminili a spiccare, a cantare con più forza. La forza corale, come quella del mitico coro delle Voci Bulgare Angelite, la forza rituale delle Deba, 13 donne dell’Isola di Mayotte le cui voci e danze accompagnano i pellegrini che rientrano dalla Mecca attraverso l’oceano indiano. E poi la forza giovanile della nuova Africa di Fatoumata Diawara, la forza meticcia delle Tarta Relena, che mischiano l’elettronica moderna con le tradizioni del Mediterraneo, e dei suoi eterni incroci. La forza fisica, politica, di Sainkho Namtchylak, leggenda del canto tuvano, che a 67 anni non cede un millimetro nel suo impegno contro la misoginia.
Così La Musica dei Cieli torna per un altro anno, per avvicinarci al cielo, regalando un po’ di celeste sollievo ai nostri padiglioni auricolari martoriati dal presente. Se ne avrete voglia, partecipate. Se non vi interessa, se pensate che non vi garantisca l’ambita “visibilità”, rimanete pure a casa o andate altrove. Dal cielo si continuerà comunque a vedere, e a sentire, tutto benissimo.
Un giorno, verso la fine degli anni ’30, Antoine Joseph Sax, detto Adolphe, pensò bene di imporre un’ancia da clarinetto al corpo di un ottone. Scandalo. Già mi immagino i commenti sui social ottocenteschi (ovvero, boh, le taverne? le caserme?): “ai nostri tempi questo non si sarebbe mai permesso! la musica sta morendo!”. L’idea di Sax era quella di far incontrare l’ampia gamma timbrica dei clarinetti con il volume di suono degli ottoni. Era una cosa che lo ossessionava un po’, questa del volume. Qualche anno più tardi avrebbe fornito i suoi strumenti a una banda militare per una vera e propria battaglia di volumi: vinse la banda di Sax benché i musicisti fossero in numero inferiore. Da quelle prime sperimentazioni non è passato nemmeno un secolo, ma il volume dell’ibrido denominato Sassofono ha già infranto i volumi altissimi sognati dal suo inventore.
È qualche anno infatti che, senza bisogno di sfide tra bande, le ambizioni a spingere i sax sempre oltre ha preso piede a livello globale. Affrancatosi dalla libertà assoluta del jazz e dalla rabbia distruttiva del rock, il sax nel nuovo millennio veleggia tutto solo in oceani oscuri, fatti di riverbero e paura. Chi non apprezza le chiama semplicemente ‘scoregge’, e non sarà un caso che “Surrender”, il capolavoro con cui esordì il sassofonista norvegese Bendik Giske, si aprisse con un pezzo intitolato “Ass Drone”.
Da allora Giske, che sul suo sito si definisce un «artista che usa la fisicità, la vulnerabilità e la resistenza come suoi strumenti di espressione», ha trascorso il tempo a spogliare la sua musica, riducendola alla sola colonna di suono che tanto bramava Adolphe Sax. Spogliando la musica, però, Giske ha finito per spogliare sempre più anche se stesso, facendo sì che quella autoproclamata vulnerabilità diventasse la vera protagonista della sua arte. Non so se sia questa fragilità a tenerlo lontano dai palchi, ma fatto sta che Giske dal vivo è praticamente imprendibile, limitato ogni anno a una piccola manciata di festival costosissimi, insostenibilissimi, lontanissimi da noi del sud del continente. L’occasione è unica, insomma, per lui, per la sua resistenza, per l’ennesimo tributo al rumorosissimo regalo fattoci da Adolphe Sax.
Nelle mattinate di autunno, mai prima delle 11, mi siedo al tavolo, accendo il computer, faccio alcune cose prive di dispendio fisico e ascolto musica nuova. Ho un file di appunti in cui mi segno tutti i titoli che arrivano all’orecchio via radio, recensioni o conversazioni. Ne scelgo qualcuno, apro bandcamp e via. E’ un ascolto distratto, che convive con altre attività che impegnano il cervello o le mandibole, ma è ciò che mi serve, perché so già che su metà di quei dischi ci tornerò, gli altri restano lì. Spesso capita che diventi persino un sottofondo, ma qualche volta…
La mattina in cui ho fatto partire il disco dei Been Stellar è andata come tutte le altre per pochissimo. Dopo un paio di tracce avevo già smollato il computer, dopo cinque avevo interrotto la colazione, all’ultima ero ormai in piedi che saltavo. Il punto è che, con tutto il bene che gli possa volere, il mondo del rock, nello specifico dell’eterno ritorno del post-punk in cui siamo intrappolati da – boh – almeno vent’anni, sembrava non riuscire mai a saltar fuori da quell’ascolto distratto. Coi Been Stellar invece mi è sembrato di tornare ai Girls Against Boys, ai Dinosaur jr, a quel rock americano in cui ci metti il cuore e la furia delle chitarre, e essenzialmente basta così. Ho una paura canaglia che durerà poco questo equilibrio, per cui fintanto che c’è godiamocelo, urliamocelo e vediamo come va. E poi si tornerà ai soliti ingredienti della colazione, la marmellata sarà sempre buona, in attesa di ritrovarsi con le orecchie che scoppiano di sorpresa e rumore.
I dischi solisti dei membri dei Sonic Youth (almeno i membri “classici”, insomma tranne Jim O’Rourke) sono sempre stati un problema. E’ un fatto inevitabile, considerando che, per dirla in linguaggio social, quando ci si chiede quale sia la miglior band di tutti i tempi la domanda successiva è “perché proprio i Sonc Youth?”. Come scomporre la magia, il tormento, la sorpresa di una band che è nel suo essere band che ha forgiato una carriera lunga 30 anni, rivoltando come un calzino lercio la storia del rock, della chitarra, del rumore, delle avanguardie, del suono e della gioventù? L’unico che sembrava avercela fatta era stato Thurston Moore, ma era il 1995, la band era ancora viva, reduce un filotto di dischi memorabili, e insomma, la magia faceva ancora rumore. Poi basta, e non che non ci abbiano provato. Chi seguendo la traiettoria sonica (Moore, spesso in coppia con Steve Shelley), chi abbandonandola del tutto rapito dall’esplorazione intima della chitarra (Lee Ranaldo) e chi sembrava l’avesse fatto quasi controvoglia, come una distrazione da una vita di sperimentazione più radicale. Sì, sto parlando esattamente di Kim Gordon. Poi è arrivato il 2024 ed ecco che, appena scollinati i 70 anni, Kim tira fuori un disco così contemporaneo e così sonicyouth-iano allo stesso tempo che forse poteva riuscirci solo lei, o nemmeno lei. Non sarà un caso che il disco, benché solista, già nel titolo torni a parlare di condivisione, di costruzione comune. Non so quale sia il “Collettivo” che ha portato Kim Gordon a piegare il tempo, ancora una volta – benché ho il dubbio che sia l’insieme di tutte le sue anime, e della loro relazione col mondo. So però che Gordon ha fatto quello per cui l’umanità le è sempre stata grata: ha individuato i limiti del suo mondo e li ha presi a calci, fatti a pezzi. E se c’è da fare la dub, che la si faccia. Se c’è da fare la trap, che la si faccia. Sono Kim Gordon io, scansati mondo. Fai ancora di noi quello che vuoi, Kim.