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[CrampiSportivi] Ponferrada 2014: sei outsider contro i pronostici

Posted: Settembre 25th, 2014 | Author: | Filed under: pedallica | Tags: , , , , , , , , , | Commenti disabilitati su [CrampiSportivi] Ponferrada 2014: sei outsider contro i pronostici

Crampi Sportivi è uno dei siti di sport in italiano che preferisco, uno di quelli che leggo piu’ di frequente negli ultimi mesi… arrivando pure a leggee cose di cui non mi frega pressochè nulla. è così che sono proprio felice di aver scritto questo pezzo a 4 mani.


Se mai vi siete trovati nella scomoda posizione di spiegare a qualcuno perché restiate per ore impalati a bordo strada o di fronte ad uno schermo nell’attesa di duecento bici da corsa, allora sapete già che il ciclismo è uno sport difficile da capire. La barriera all’entrata è alta, le dinamiche tattiche possono risultare incomprensibili ai ‘non iniziati’.
Uno sport ontologicamente individuale che però è anche, o forse soprattutto, sport di squadra. Una dicotomia sufficiente a ingrippare le menti meno avvezze al discorso ciclistico. La gara in linea del mondiale è l’esaltazione di questa doppia natura dello sport a due ruote. Ci sono le squadre, che sono le Nazionali. Ma vince un uomo solo.

Le squadre più blasonate hanno diritto a nove corridori, che collaborano tra loro per portare alla vittoria il proprio ‘capitano’. A volte invece i nove si dilettano in faide interne e sanguinose, ma questa è un’altra storia. Squadre con nove uomini, dicevamo. Ma anche squadre con sei o con tre uomini, quelle meno importanti (ciclisticamente parlando, si intende). Fino al caso limite e paradossale delle squadre-individuo, autentiche città-stato dove l’unico rappresentante è contestualmente capitano e gregario di se stesso.
Domenica sarà la volta di Ponferrada, Spagna. Un circuito di 18 chilometri da ripetere 14 volte. Due salitelle animeranno il circuito. La seconda è uno strappo di mille metri, a 6 chilometri dal traguardo. Pendenze pedalabili (5.5%): difficile che uno specialista delle salite riesca a fare la differenza. Più probabile che un gruppetto di corridori riesca ad evadere, per poi giocarsi il titolo in una volata ristretta. Una situazione di incertezza estrema in cui le squadre saranno, una volta di più, decisive.

Vi presentiamo sei uomini-chiave, uno per ciascuna delle Nazionali più accreditate: Italia, Australia, Spagna, Germania, Belgio e Francia. Sei uomini che non sono i favoriti in assoluto, ma di sicuro saranno tra coloro che, nel bene o nel male, determineranno le sorti della corsa.
Ecco un assaggio delle loro storie, su e giù dalla bici. Ed ecco perché domenica prossima, a un certo punto, li sentirete nominare.

ALESSANDRO DE MARCHI – IL ROSSO DI BUJA E’ DIVENTATO AZZURRO

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Buja è dappertutto e in nessun luogo. Gli abitanti del comune friulano rispondono così ai visitatori incuriositi dal fatto che il territorio comunale di Buja sia un agglomerato di 49 borghi e frazioni, ma nessuna tra queste porti il nome del paese. Dov’è Buja?
Buja è di sicuro dentro la testa e le gambe di Alessandro De Marchi. Il rosso di Buja. Rosso di pelo, rosso di storia. Numero rosso all’ultimo Tour de France. Demarchì, Monsieur Combativitè. Cinque tappe in fuga, il conto dei chilometri corsi ‘al vento’ l’ha perso pure lui. A Chamrousse si è arreso solo sulla salita finale, quando l’Astana ha chiuso sulla fuga per favorire l’attacco vincente di Nibali. Il giallo e il rosso. L’uomo in fuga verso la gloria, Nibali. E l’uomo in fuga e basta, De Marchi.
In fuga da sempre, il rosso. Nasce pistard, scopre di andar forte in pianura, migliora a vista d’occhio in salita. Va in fuga alla sua prima corsa in assoluto, e lo riprendono a 20 km dall’arrivo. Tanti complimenti, ma poche vittorie. La prima da professionista in una tappa del giro del Delfinato 2013, a Risoul. La seconda pochi giorni fa, in solitaria ad Alcaudete. Dopo una fuga, è ovvio. Alla Vuelta, la corsa dove il vincitore veste di rosso. In Spagna, dove si corre il Mondiale.
De Marchi ci sarà, domenica, e lavorerà per capitan Nibali. Il rosso, il giallo, l’azzurro. De Marchi ci sarà e sarà fondamentale. Dovrà inserirsi in tutte le fughe, perché lo sa fare meglio di tutti in gruppo. Dovrà stoppare gli avversari, far ripartire l’azione e tirare quando serve, come un mastino di centrocampo. Il rosso di Buja tirerà indifferentemente in pianura, con il gran faticatore Quinziato, e in salita, con i Caruso e con Aru. Difficilmente lo vedremo all’opera negli ultimi chilometri, quando entreranno in azione le punte di diamante. Nibali e Visconti, che però non sembrano al massimo della forma, oppure la mina vagante Sonny Colbrelli. Oppure ancora, chissà, il rosso di Buja si trasformerà lui stesso in punta di diamante. Per un giorno.
In ogni caso, sappiamo già come rispondere se qualche sprovveduto ad un certo punto ci chiederà ingenuamente: “Dov’è De Marchi?”
De Marchi, si sa, è dappertutto e in nessun luogo.

   

ADAM HANSEN – L’IRRESISTIBILE (E RESISTENTE) INGEGNERE AUSTRALIANO

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“Non sono il classico australiano. Vivo in Repubblica Ceca. Corro per una squadra belga. Non prendete i miei tweet sul serio. Per niente.”
Sì, non vi sbagliate. Nella foto qui sopra, Adam Hansen è quello con la pistola ad acqua. Il suo profilo Twitter è una rivista di avanspettacolo. Scherzi, fotomontaggi, lazzi di ogni tipo. Hanseeno, questo il suo soprannome, è quello che in gruppo non deve mancare mai. Anche perché, effettivamente, non manca mai. Con l’ultima Vuelta, ha concluso il suo decimo grande giro consecutivo. Vi ricordate la mitica tappa con la neve sullo Stelvio, nel giro vinto da Nibali? Hansen c’era. La doppia scalata all’Alpe d’Huez al Tour? Hansen c’era anche lì. Lo Zoncolan, il Mortirolo e l’Angliru, le salite più dure d’Europa? Hansen c’è sempre stato. Professionista esemplare. Stacanovista si dice in questi casi, ma lui sostiene di fare semplicemente il proprio lavoro. Senza troppo talento (solo due corse vinte negli ultimi quattro anni), ma imprescindibile. Hansen è un ingegnere che progetta scarpe da 2500 euro e le mette in vendita sul proprio sito, insieme a magliette e cappellini di culto. I suoi compagni di squadra, in ritiro, chiamano la sua camera di albergo “the office”. Riparazione di pc o di biciclette, non fa differenza.
La mente scientifica di Adam Hansen sarà preziosissimo ufficio della squadra australiana nei 254 chilometri di Ponferrada. Il lavoro sporco non ha mai spaventato Hanseeno, che sarà l’anima saggia degli aussie, insieme all’intramontabile Cadel Evans. L’obiettivo primario per l’Australia è portare Simon Gerrans, campione nazionale, ad una volata ristretta, in cui il vincitore della Sanremo 2012 potrebbe risultare quasi imbattibile. In seconda battuta ci sarà Matthews, sei giorni in maglia rosa all’ultimo Giro d’Italia, capace di dire la sua anche in una volata con 50-60 corridori. Poche nazionali potranno permettersi di giocare due carte così. E se un australiano tornerà a vestire l’iride dopo 5 anni, statene certi, dentro “l’ufficio” sarà festa grande. E l’ingegner Hansen menerà le danze.

LUIS LEON SANCHEZ – VIA DAL POLLAIO SPAGNOLO

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Gli spagnoli, che ai loro campioni trovano sempre un soprannome, Luis Leon Sanchez lo abbreviano con un anonimo LuisLe. Più bello figurarselo invece come BrancaLeón, per quella sua tendenza all’attacco talmente naturale che pure il suo viso, così spigoloso, sembra essere scolpito dal vento preso in faccia mentre pedala in avanscoperta. Un fuggitivo di razza purissima, dotato della necessaria resistenza e soprattutto di una furbizia rara, che gli ha permesso più volte negli anni di cogliere il momento esatto per finalizzare. Eppure, come spesso accade a chi fugge dal gruppo, BrancaLeón ha una carriera monca, dove si alternano vittorie a cadute. Dall’élite delle due ruote fino al fango di scandali mai del tutto compresi. Così Sánchez arriva al mondiale dopo una stagione passata a prendere vento in faccia con addosso la maglia di una squadra minore, la professional Caja Rural. Un po’ come suo fratello Pedro (noto ai calciofili come Pedro Leon), che dopo esser stato quasi titolare nel Real Madrid oggi veste la maglia del Getafe.
Allestire una squadra per i mondiali per la nazionale spagnola è sempre un gran casino, perchè i campioni qui sono tanti e spesso finiscono per pestarsi i piedi tra loro. Quest’anno, però, i galli nel pollaio sono un po’ meno del solito. Samuel Sánchez non è stato convocato nonostante l’ottima Vuelta; Contador si è chiamato fuori nonostante la Vuelta l’abbia addirittura vinta. A farsi la guerra, come 12 mesi fa, restano il piazzatissimo Purito Rodriguez e quell’animale da mondiale che è Valverde, capitano assoluto di questa formazione, tanto da essersi portato dietro mezza squadra di gregari. Il rischio è l’ormai proverbiale attendismo di una Spagna che senza Freire non sa più vincere. Per evitare questa situazione non si può che confidare negli unici due attaccanti in squadra, Dani Moreno e soprattutto il redivivo Luis León Sánchez. BrancaLeón era finito ai margini del grande ciclismo, ma sta risalendo i gradini. Domenica tornerà a scombinare i piani del gruppo e a minare l’attendismo spagnolo nell’unico modo che conosce: abbassando la visiera dell’elmo e partendo lancia in resta all’assalto dell’orizzonte.

TONY MARTIN – L’AUTOMEZZO BLINDATO DI COTTBUS

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Eccolo un altro che fugge praticamente da sempre. La prima volta aveva 2 anni, e le gambe in fuga non erano le sue. Ad abbandonare Cottbus non erano le gambe che sarebbero diventate i più potenti pistoni umani contemporanei. Erano le gambe di papà Karsten, impiegato statale della DDR, che aveva deciso di mettersi in spalla il piccolo Tony e di portarlo via dalla Germania dell’Est, per iniziare una nuova vita a Francoforte. Era stato un ciclista di talento, Karsten, poi emarginato dal sistema sportivo del suo Stato perché soleva usare una borsa Adidas, marchio-simbolo della Germania Ovest. Da Karsten, Tony Martin ha ereditato la passione per la bicicletta e la meticolosità negli allenamenti. “Farmi dire da altri cosa fare non rientra nella mia natura.” Via, allora. Di testa sua. Lupo solitario con la faccia da bambino.
Ama le gare a cronometro perché lì non c’è strategia. Ci sei solo tu, la tua bici e la tua testa, a lottare contro la stanchezza. Le gare a cronometro lo hanno consegnato alla storia: medaglia d’argento alle Olimpiadi di Londra e soprattutto tre titoli mondiali consecutivi, l’ultimo a Firenze l’anno scorso. Due giorni fa non gli è riuscito lo storico poker, e ha dichiarato che ancora non si rende conto della grandezza della sua delusione. Probabile, anzi sicuro, che Tony riverserà la sua rabbia sull’asfalto, nella gara in linea. Sarà al servizio del favoritissimo John Degenkolb, che viene come lui dalla scuola sportiva di Erfurt e che ha dominato quattro tappe dell’ultima Vuelta.
Martin e Degenkolb hanno il compito di far riesplodere definitivamente la passione ciclistica teutonica: dopo lo scandalo T-Mobile, la Germania è uno dei pochissimi paesi del mondo dove non il Tour de France non viene trasmesso in diretta.
Tocca a Tony Martin, detto simpaticamente (se mai un soprannome possa suonare simpatico, in tedesco) Panzerwagen. Traducibile in italiano come ‘automezzo blindato’. Brutto, ma rende benissimo l’idea.

GREG VAN AVERMAET – IL BELGA IN FUGA DALLE ETICHETTE

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Greg Van Avermaet non vince mai. E corre forte, e corre tanto, per sfuggire a questa etichetta di eterno sconfitto che la sfiga gli ha appiccicato addosso, di fianco ad una storia che lo vide (giovanissimo) portiere di pallone prima di dedicarsi al ciclismo. D’altronde, che Van Avermaet non vinca (quasi) mai è un dato di fatto, quantomeno se si paragona il numero di vittorie al gigantesco numero di piazzamenti di alto livello ottenuti in carriera.
Il problema di Van Avermaet è che comunque vada, sbuca sempre fuori qualcuno che almeno quel giorno va più forte di lui, lui che va forte tutti i giorni, tutto l’anno e su tanti terreni.
Il problema di Van Avermaet è che è nato nell’epoca sbagliata: in un ciclismo dove tutti si specializzano per quelle poche corse all’anno la sua polivalenza e la sua costanza di rendimento sono diventati quasi un handicap, perchè ogni volta ci saranno un Cancellara o un Sagan, ma pure un Hushovd o uno Stannard, ad andare più forte di lui quel giorno. E lì puoi finire in tutte le top 10 delle classiche, ma resterai sempre un piazzato, o solo un ex-portiere.
Il problema di Van Avermaet è che è nato in Belgio, nello stesso paese e nella stessa generazione di Boonen o di Gilbert, che finiranno per essere i capitani della sua nazionale anche quest’anno, e dopo di loro verrà Vanmarcke, e magari Bakelants. E a Greg toccherà ancora fare lo spauracchio, prendere il vento in faccia nelle fughe da lontano, farsi riassorbire e riattaccare, per poi concludere ancora lì, tra i primi dieci, magari migliore tra i suoi, ma senza vincere. Ma visto che la nazionale non si può cambiare come una squadra di club (come quando Van Avermaet se ne andò dalla Lotto per non pestarsi i piedi con Gilbert per poi essere raggiunto dal campione vallone nella stessa squadra dodici mesi dopo), stiamo ben certi che Van Avermaet non si tirerà indietro nemmeno stavolta, perchè non occorre essere un vincente per essere un grande protagonista.
Il problema di Van Avermaet è che non vince mai. Ma quando succede vale molto di più.

TONY GALLOPIN – IL FRANCESE COL DESTINO SCRITTO NEL NOME

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Tony Gallopin è uno che si trova il destino scritto già nel nome. Anzi, nel cognome. Un cognome che nel ciclismo francese è tutt’altro che anonimo: il talento parigino lo condivide con una stirpe di professionisti e direttori sportivi. Gallopin è portato a galoppare una bicicletta dalla natura e dall’anagrafe, e non si può negare che la cosa gli riesca spontaneamente bene.
Galoppa per se’ e fa il galoppino per gli altri, pronto a portare borracce e a tirare per la squadra quando occorre, come all’ultima Paris-Bruxelles quando all’approssimarsi del triangolo rosso ha ridisceso il gruppo per recuperare il suo capitano Greipel, incollarselo a ruota e guidarlo in testa fino alla volata vincente. Un numero di forza e disponibilità che ha ricordato a molti quello di Perini per il mondiale di Bugno a Benidorm, mondiale del 1992.
Gallopin è un corridore che se non può far tutto, può fare tanto: tiene sulle salite non troppo dure, ha uno spunto veloce notevole e pure sul passo si difende egregiamente, tanto da aver collezionato medaglie mondiali a cronometro nelle categorie giovanili. Con tutte queste doti, ci si stupisce che fin qui abbia vinto così poco. Ma quando vince, vince bene: a San Sebastian l’anno passato, o al Tour quest’anno dove ha potuto godere anche di un giorno in maglia gialla, unico del gruppo ad aver interrotto il lungo regno di Nibali. In una forte nazionale francese, Gallopin non avrà la volata di Bouhanni, lo scatto in salita di Pinot, il coraggio di Barguil o la leggendaria tenacia di Chavanel, ma nelle sue gambe e nella sua testa c’è un po’ di tutte queste qualità, e tanto basta per galoppare fino al traguardo. Che sia per sè o per un compagno in grado di prendere l’iride in Spagna e riportarla al di là dei Pirenei, diciassette anni dopo Brochard.

E SE INVECE…    

Questi i nostri personaggi, quindi. Se completeranno la loro missione fino in fondo (e su questo ci permettiamo di avere pochi dubbi), è probabile che il nuovo campione del mondo sia nascosto tra i loro compagni di squadra. O forse proprio tra i nostri sei.
Poi invece succederà che il titolo iridato finirà a uno come Kristoff, Sagan, Rui Costa o Cancellara, campioni assoluti e punti di riferimento in squadre di secondo piano, capaci di vincere anche senza gregari. Ma l’abbiamo detto, il ciclismo è uno sport difficile da capire. E ci piace da matti anche per questo.


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