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[bikeit] La pancera gialla. Fischia il vento.

Posted: Luglio 17th, 2013 | Author: | Filed under: pedallica | Tags: , , , , , , , , , , , , , , | Commenti disabilitati su [bikeit] La pancera gialla. Fischia il vento.

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[un nuovo post dal blog su bikeitalia.it]

Al Tour de France tira vento forte. Persino nel giorno di riposo, il vento cambia, gira, ma continua a soffiare portando con se’ aromi diversi e odori mefitici. Si avverte pure qua, sul divano, schiacciato dall’afa e da un sole che non conosce tregua, dove qualche respiro arriva grazie ad un enorme ventilatore puntato direttamente sul basso ventre, e un po’ di frescura la portano le solite birrette. La corsa invece stavolta si è infiammata e non si dorme più. Anzi, si suda.

Il vento ha iniziato a soffiare lo scorso venerdì, in una tappa che pareva già predestinata all’ennesima dormita in attesa dello sprint finale, e invece di colpo le federe dei cuscini cominciano a svolazzare, e in gruppo qualcuno si accorge di ciò che accade sul divano. O viceversa, non saprei, il risveglio brusco confonde i ricordi, fatto sta che ci si trova con un capolavoro tattico di Quick Step e Saxo, l’ennesimo gioiello di Cavendish ma soprattutto Contador che riesce a eliminare Valverde e distaccare Froome. Tutto grazie ai ventagli, a quell’abile gioco aero-meccanico che consiste nel pedalare alla morte coprendosi a vicenda dal vento, e chi resta fuori è spacciato, o quasi. Perchè uno come Froome non avrà dalla sua chissà quale intelligenza tattica, ma ha dalla sua le gambe e lo dimostrerà. Si passa velocemente dal vento in poppa di Matteo Trentin, l’anomalia di un’italiano che vince una tappa al Tour, ma un’anomalia veloce perchè si parla di un cervello in fuga sulle strade del Belgio, lontano da questa periferia d’Europa dove si sta cercando in ogni modo di distruggere i ciclisti e il movimento, e si arriva al luogo dove Eolo soffia per definizione.
Il Mont Ventoux più che una montagna sembra un asteroide, pare normale quindi che a raggiungere la cima per primo ci arrivi un alieno. Il marziano venuto dal Kenya che spinge sui pedali come un power-frullatore e stacca tutti quanti, che arriva in cima evidenziando tutti i limiti dei suoi avversari (Contador e Purito che non ne hanno, gli altri che più di così è dura immaginarseli), mentre i propri li nasconde bene, li cela nel vento favorevole del 14 luglio, che potrebbe spingerlo fino ai Campi Elisi.

Ma il vento più forte si alza nel giorno di riposo, forse già nel momento in cui Froome taglia il traguardo del Ventoux, alza un braccio esultante e si accascia al suolo, chiedendo una maschera di ossigeno per riprendersi dall’estremo sforzo. E questa volta non ha nulla a che spartire con i giorni precedenti: forse non è un vento di tempesta, ma sicuramente è un vento che porta con se’ odori mefitici, i miasmi di un sottobosco di zombie e vampiri che non accenna a scomparire. E’ un vento di morte, il decesso a cui il ciclismo va incontro dopo 15 anni di battaglie perse contro la dittatura sottile dell’antidoping. Si inizia subito a fine tappa, a dire che Froome è andato troppo forte (ma davvero, poi?) e quindi “non si può credergli”; si procede nel giorno di riposo con una conferenza stampa bellica, in cui i pruriti dei crociati del sospetto si abbattono sul kenyano e sul suo team; si chiude da queste parti con l’ennesima sparata della Gazzetta, che non smentisce la sua passione voyeruristica sbattendo in prima pagina i fantasiosi “sospetti” su Froome fianco a fianco con gli scandali-doping dell’atletica. Ci si può girare intorno quanto si vuole, ma questo è il risultato della guerra senza morale che l’ambigua politica dell’antidoping e i suoi mandanti (chiunque essi siano) hanno mosso ai danni del ciclismo: scompare il beneficio del dubbio, scompare la speranza, restano solo la condanna e e il patibolo… le scale e la corda, come dicevano i pirati, rimuovendo sempre il dettaglio che quelle che salgono sul patibolo non sono altro che persone.
Le reazioni nel mondo del ciclismo non mancano, ma non riescono a scrollarsi di dosso una sorta di alone di timidezza, un senso di colpa in cui la colpa è ancora da stabilire. 15 anni di cannibalismo, in cui i cadaveri prima sono stati creati e poi sono stati mangiati (con la famigerata lista del Tour ‘98 ancora in attesa) hanno stroncato ogni anticorpo di difesa. L’unica difesa possibile può venire dalla strada e dai pedali: ma oggi è sotto attacco anche quella.

La strada, ecco, teniamoci la strada che resta da qui a Parigi, che è la più vivace. Lo si è visto nel finale caotico di Gap, lo si vedrà nella resistenza a Froome della crono di Chorges e poi sulle Alpi, sull’Alpe per eccellenza in particolare. Per l’Alpe d’Huez toccherà anche alzarsi dal divano e pedalare sino ad Upcycle, il bike-cafè meneghino che per l’Alpe si apre ad una visione comunitaria e dibattuta, da Bar Sport d’altri tempi, quando zombie e vampiri stavano ancora sottoterra.


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