Ci sono suoni che si ascoltano e suoni che si attraversano. Credo che la ragione per cui le cattedrali abbiano sempre cercato di dotarsi di potentissimi organi sia questa. Avere un suono in grado di attraversare i presenti, elevandoli verso spazi celesti da una parte e schiacciandoli a scomode panche dall’altra. Da una parte all’altra, come i chiodi della croce.
Kali Malone deve essere stata attraversata in maniera particolarmente drastica da qualche suono per fare la musica che fa, che potrebbe essere tanto una forma di contemplazione del divino quanto la colonna sonora di un orribile e truce sacrificio umano, verosimilmente indirizzato agli stessi déi di cui sopra. Il fatto che il suo capolavoro dello scorso anno (e che dovrebbe rappresentare il nucleo del suo concerto con l’organo di Santa Maria Annunciata in Chiesa Rossa) sia dedicato alla profanazione e intitolato All Life Long, vedete voi se prenderlo con sollievo o con timore.
Ci sono dei momenti in cui la musica riesce a infilartisi nelle orecchie distorcendo il segnale monocorde del mondo di merda in cui viviamo e a convincerti che no, l’umanità non è proprio da gettare tutta nel cassonetto dell’umido. Uno di quei momenti è quando si ascoltano per le prime volte i Sanam.
I Sanam che vengono da Beirut, dal Libano, da uno di quegli innumerevoli luoghi del pianeta in cui la furia omicida dell’homo sapiens, del colonialismo occidentale nello specifico, dà il peggio di sé senza né sosta né vergogna. I Sanam che tutto sto schifo lo sovrastano con un suono che dal succitato mondo di merda distilla invece un purissimo, fortissimo, liquore di pura bontà, dalla cui degustazione auricolare emergono tutti i profumi del mediterraneo, le note acide della psichedelia e un retrogusto di furia percussiva che si fa sovrastante.
I Sanam che, se fanno l’effetto che fanno a sentire i loro dischi, chissà dal vivo cosa diavolo succede. Poi il mondo resterà ancora quella putrescenza lì, ma intanto ricordarsi ogni tanto che il bello esiste e che è così forte non può che essere un primo passo per riscrivere il resto della storia.
Se dovessi dirla tutta, non saprei mai spiegare cosa ci trovo nei dischi di Haley Fohr, meglio nota come unico membro della one-woman-band chiamata Circuit des Yeux, figuriamoci scrivere un articolo al riguardo. Perché la musica di Circuit des Yeux non ha nulla di originale, non c’è un istante in cui ti faccia spalancare i timpani di stupore e curiosità, che sia nel suo fragile passato chitarroso o nel più cavernoso presente digitale. E allora perché continuare ad ascoltarla e ad apprezzarla? Certo, Haley ha una voce ultraterrena, una di quelle che voci da cui vorresti sentire cantare qualsiasi cosa, anche un jingle pubblicitario. Ma non basta. Il fatto è che la musica di Circuit des Yeux, continuo stuzzicare la sensibilità di chi ascolta, non parla alle orecchie. Andrebbe ascoltata con un altro organo, collocato suppergiù in mezzo alla cassa toracica, tra la cistifellea e il diaframma. Il luogo delle sensazioni delle ferite più profonde, quelle in cui sguazza l’angoscioso canto di Haley Fohr, con una carta da giocare che, quella sì, non ha quasi nessun altra: il jolly della catarsi.
A un certo punto, qualche anno fa, ho seguito un laboratorio di mantra. Niente di troppo esotico: semplicemente c’era una guida che, tra un’indicazione sulla respirazione e una spolverata di storia e simbologia induista, ci faceva sedere in cerchio e cantare tutte assieme. Non è che mi ricordi molto di quanto cantavamo, ogni tanto mi si affaccia qualche verso ma finisce lì. Ciò che mi è rimasto addosso è l’abbandono, l’avvolgente dedizione alla ripetizione e all’intonazione. Arriva al mattino, mentre preparo la colazione o do da mangiare alle galline, prende la forma di un verso di durata variabile, e mi trascina con sé per alcuni inafferrabili minuti. Quello che mi sfugge del tutto è perché capiti così spesso che quel mantra sia il ritornello di “Wandering Star” dei Portishead. La cosa più stramba di tutto ciò è che questa cosa è cominciata nel 1994, quando frequentavo le superiori e ignoravo ancora quel poco che poi ho scoperto sui mantra.
Trent’anni più tardi, e a 16 anni dal terzo e ultimo cantico dei Portishead, quella voce dalla paralizzante bellezza, è tornata a risuonare in un disco. Una storia completamente diversa dai Portishead, una persona completamente diversa perché gli anni (oggi 60) passano, incidono rughe nella pelle e nell’anima, ma come scava il tempo così anche la voce di Beth Gibbons riesce sempre ad aprirsi varchi fino alle radici come allora. Difficilmente nascerà un mantra da questa nuova Gibbons, il cui cambiamento ha comportato un passaggio dall’ipnosi del trip-hop all’intreccio oscuro di questa specie di folk, ma il mantra non è che uno dei tanti strumenti per abbandonare il brusio del nostro incessante pensare. Abbandonarsi alla voce di Beth Gibbons può rivelarsi una pratica altrettanto valida. Di questi tempi orribili e minacciosi, nei quali si celebra la definitiva morte della speranza, si direbbe quasi una pratica salvifica, persino illuminante.
Gli Acid Mothers Temple compiono 30 anni. Trenta, meglio scriverlo a lettere, per rispetto e ammirazione verso un’esperienza musicale così longeva, cangiante, ma soprattutto energica. Compiono trent’anni e festeggiano nel modo per loro più naturale: si buttano su un furgone e macinano chilometri in giro per l’Europa.
Il tour celebrativo, intitolato Dark within of Astropia, si compone di 38 date consecutive, senza nemmeno un giorno di riposo in mezzo: dalla Spagna alla Gran Bretagna, passando per Portogallo e Francia, e poi giù fino in Grecia attraverso i Balcani, per poi chiudere tra Italia e Francia meridionale. Un tour che sarebbe duro per una punk band di ventenni, figuriamoci per loro che di anni ne hanno più del doppio mantenendo il medesimo stile di vita.
Ed è una vita vissuta plasmando meraviglie sempre nuove, taglienti, tra psichedelia, rumore e genuino divertimento. Giorno dopo giorno: viaggiare, suonare, sbronzarsi, ripartire. Se il conclave non fosse durato così poco, forse si sarebbe fatto in tempo a candidare a pontefice il loro driver, indubbiamente già in odor di santità. Gli Acid Mothers Temple saprebbero comporre al volo i migliori inni sacri(leghi) per celebrarlo, e poi sbronzarsi e rimettersi in furgone.
Chi la ferma, Arooj Aftab? Chi mai ci riuscirà? Di certo non il chiacchiericcio del mondo, il vociare di sale da concerti o da riunioni, la distrazione delle paura che rappresenterebbe l’antagonista naturale per un’arte così delicatamente puntuale. Perché nel suo tratteggiare grande musica, ciò che rende straordinaria Aftab è la sua capacità di cantare il silenzio, recitandolo come fosse una poesia, inserendolo come una strofa in canzoni che adottano la forma dei ghazal al solo scopo di abbandonarla.
È così che Aftab si getta come una palombara nelle profondità più insondabili, nelle oscurità della morte, della notte, dell’amore. Inarrestabile. Di certo non la fermerà l’orecchio monodimensionale dell’Occidente, per il quale la musica di Aftab, nata in Arabia Saudita da una famiglia pakistana e trasferitasi ormai da 20 anni negli Stati Uniti, è principalmente un prodotto esotico. Arooj Aftab è in realtà una straordinaria autrice di musica pop, dove con pop dovremmo indicare Cole Porter o Billie Holiday, continuando a guardarci l’ombelico, o altresì Begum Akhtar (che Aftab stessa definisce la sua Billie Holiday) o Hariprasad Chaurasia.
Un’autrice pop dalla creatività e dall’energia inarrestabili, la cui poetica non è più soltanto un ponte tra più mondi, ma proprio un mondo nuovo, in cui convivono tradizione e futuro, individualismo e divertimento. E una volta che lo si è plasmato un mondo non si può distruggerlo, al massimo solo rovinarlo. Per questo Arooj Aftab non la ferma nessuno, perché anche con tutte le luci e tutti i rumori non si possono fermare la notte e il silenzio: hanno sempre qualcosa da dire.
L’ultima, e ahimè unica, volta in cui ho avuto l’occasione di assistere a un concerto dell’Orchestre Tout Puissant Marcel Duchamp fu in un bel festival della provincia padana. Un festival istituzionale, all’aperto, con le file di seggioline in plastica che si agganciano l’una all’altra, il pubblico con le gambe accavallate e gli applausi puntuali tra un brano e l’altro. Immagino che l’Orchestre suoni spesso in questi contesti, non foss’altro per le sue dimensioni di “ingombro”, e immagino che finisca sempre allo stesso modo: con le seggioline che ben presto si ritrovano ugualmente in fila ma senza più natiche a scaldarle, e il pubblico di ogni età che si fa largo tra i corridoi di passaggio e il sottopalco per sculettare gioioso. Nulla che non accada a numerosi altri live, a tutte le volte che l’energia danzante rompe la stasi di concerti più ingessati. L’unicità del caso viene dal fatto che sia un’orchestra a rompere le righe, e ancora di più un’orchestra proveniente dalla Svizzera.
In realtà, l’Orchestre non è sempre stata davvero un’orchestra. All’inizio era soltanto un nome ironico, immagine fedele dello stile giocoso di un progetto che si ispirava a certa psichedelia pop di scuola Stereolabiana tanto quanto alle ritmiche delle feste centrafricane. Ci sono voluti dieci anni perché l’organico si allargasse così grassamente, crescendo giorno dopo giorno in quel sottobosco che non ti aspetti da una città come Ginevra. Almeno, non me lo aspettavo io, che a Ginevra non ci sono mai stato, ma che a un certo punto ho scoperto con le orecchie, esplorando paesaggi sempre sorprendenti, grazie a locali avanguardisti, festivalini radicali, etichette esplosive come Les Disques de Bongo Joe, che ha adottato l’Orchestre sin dal 2018 e che in questi stessi giorni festeggia i suoi 10 anni di vita. Il concerto dell’Orchestre arriva proprio nel bel mezzo di una festa, che ‘ginevrerà’ già dal giorno precedente, passando da un incontro e dj set nel pomeriggio da Volumebk, da cui muoversi tutti insieme, appassionatamente e con spirito di gratitudine, verso lo Spazio Teatro 89.
Qualche tempo fa ricordo di essermi imbattuto in un articolo sulle cellule totipotenti. Non ci capii granché ma rimasi colpito dall’esistenza di queste cellule che possono svilupparsi con nature diverse a seconda di ciò che richieda l’organismo in quel momento. L’Orchestre si autodefinisce “onnipotente” (omaggiando col suo nome proprio le orchestre africane), eppure è proprio alla totipotenza che mi ha fatto pensare: a una natura ibrida, indefinita, che si crea nel qui e ora di un flusso energetico e creativo. Come se tutto fosse costantemente sotto controllo e fuori controllo allo stesso tempo. O, per dirla con il titolo del loro album più bello e politico: We’re OK. But we’re lost anyway. Alziamoci dalle sedie e andiamo a perderci.
Il sito dei Fire! si chiama earthwindand.com. Credo che basti questo dettaglio piccolo e allegro a spiegare come sia un progetto a sé nella sconfinata produzione musicale di Mats Gustafsson e forse dell’intera, rumorosissima, scena impro scandinava che, camminando sulle spalle dei giganti che li hanno preceduti, ha fatto a brandelli il jazz negli ultimi 30 anni. Perché se gli altri progetti del sassofonista svedese sono tutti improntati, chi più chi meno, all’uso del martello pneumatico, a un’aggressione sistematica agli schemi che ancora irrigidiscono l’improvvisazione, questo è un affresco da colori ben differenti, non per forza più caldi, ma pennellati con più disincanto, tranquillità, talvolta spensieratezza.
In Fire!, che sia nel trio abituale con Johan Berthling e Andreas Werlin o nell’ariosa sorella Fire! Orchestra arrivata a contare fino a 40 elementi, si affaccia la psichedelia, il rock, talvolta addirittura degli echi funk. Una ricetta tutt’altro che semplice da far stare assieme, a infatti non ce la fanno nemmeno loro, ma vanno avanti come hanno sempre fatto: ci provano. Fire! è un fuoco che brucia le prove di quanto fatto prima e scalda il pentolone in cui cuoce ciò che tra poco si farà, un continuo processo di tentativi, errori, meraviglie. Qualcosa che riesce ad essere sempre uguale e sempre diverso, ogni volta. Non è così anche il fuoco, in fondo?
Brutta cosa l’abitudine, assassino letale della gioia e della curiosità. Quante relazioni finiscono quando si lascia il potere all’abitudine? Quante idee vengono abortite in nome dell’abitudine? Ci si abitua a tutto nella vita, anche alle guerre, al clima che cambia, al fascismo, e quando ci si abitua arriva il disinteresse. E così, un giorno, ci si è abituati anche agli Zu.
Quella band che, quando arrivò, un quarto di secolo fa, ci rivoltò tutte come il più devastante dei terremoti, è diventata una presenza talmente ovvia che quasi ce la siamo scordata. Che errore! Di ovvio negli Zu non c’è mai stato nulla. Non era ovvia la loro storia, non era ovvia la loro musica, non è mai stata ovvia nemmeno la loro presenza, così frammentata in cambi di band, travagli interiori ed esteriori, impegni individuali su cotante direzioni che soltanto uno stolto potrebbe derubricarli a “progetti collaterali”.
Se c’è una band che non vale proprio la pena snobbare, a cui non è davvero il caso di abituarsi, sono gli Zu, che per ricordarcelo tornano, ancora una volta. Perché l’abitudine e il disinteresse arrivano quando le cose non ci colpiscono, quando stanno lontane dall’intimo delle vite, mentre gli Zu sono nati per colpire, anche a ceffoni, soprattutto a ceffoni, quando serve. E a noi tutti non resta che porgere ogni guancia, ancora una volta, non foss’altro come promemoria.
Ogni giorno un appassionato di musica italiano si imbatte nell’annuncio di qualche tour europeo, spulcia con dedizione le date e infine si rattrista, pensando che l’unica possibilità sia un viaggio all’estero. È storia ordinaria, che tutte ben conosciamo. C’è stato un tempo, però, e nemmeno troppo tempo fa, in cui le cose andavano in maniera ben diversa. Anni in cui anche al di qua delle Alpi arrivavano musicisti importanti, curiosi, talmente aperti da aprirsi direttamente ai luoghi e alle persone che trovavano quaggiù. E se devo fare un esempio, e lo farò perché è l’argomento di questo articoletto, il primo che mi viene in mente è Damo Suzuki.
Damo è la voce che ascoltiamo tutte quelle volte che facciamo partire quel capolavoro della Storia della Musica che è Tago Mago dei Can, band di Colonia che fu pietra angolare del kraut-rock e un giorno si invaghì di questo piccolo artista di strada giapponese che cantava in metropolitana, portandoselo immediatamente in studio. Dopo questi folgoranti esordi e una vita a lavorare negli alberghi o in piccole aziende giapponesi, Damo si scoprì un ‘trasportatore metafisico’ e tornò a imbarcarsi su una navicella sonora dando vita a quel gioiello mutante che fu il Damo Suzuki’s Network. Una band diversa (quasi) ogni volta, spesso composta da musicisti che non lavoravano assieme, senza una struttura, senza formazioni, con la voce di Damo al centro, ma un centro che si spostava insieme a tutto il resto: l’improvvisazione allo stato puro.
Una navicella sonora che ha trovato nell’Italia un punto d’atterraggio frequente e scintillante, coinvolgendo un gran numero di figure dell’underground e non solo. Alcuni di questi, specie quelli degli ultimi tour (membri di Starfuckers, Zu, Giardini di Mirò, Afterhours, Calibro35 e molti altri) si ritrovano ora a celebrarlo in musica e alcool, come piaceva a lui. Perché i frequenti incontri con Damo hanno fatto sì che fosse una fortuna essere appassionati di musica in Italia, perché da lui c’era sempre da imparare qualcosa di magnifico: il valore della sorpresa. Damo Suzuki ha lasciato la sua dimensione fisica lo scorso febbraio, chissà dove e come svolazza il suo spirito oggi, sicuramente una capatina al Bellezza il 16 gennaio se la fa, lo aspetto al bar.