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[CrampiSportivi] Piccolo tributo a El Diablo

Posted: Dicembre 7th, 2014 | Author: | Filed under: pedallica | Tags: , , , , , , , , , | Commenti disabilitati su [CrampiSportivi] Piccolo tributo a El Diablo

[un altro articolo per CrampiSportivi, dedicato a un Mito].

La notizia magari si rivelerà infondata, forse si scoprirà essere un tentativo di attirare nuovi sponsor, la cui mancanza pare sia all’origine della decisione, fatto sta che una grande fetta di appassionati di ciclismo di tutto il mondo è rimasta spiazzata: Didi Senft, meglio noto come “El Diablo”, ha deciso di ritirarsi.

Da più di 20 anni, Didi Senft trascorreva 3-4 mesi all’anno in giro per l’Europa dietro a quel grande circo itinerante che è il ciclismo.

Iniziava a primavera, sul finire delle classiche del Nord, proseguiva con il Giro d’Italia e il Tour de Suisse prima di raggiungere l’apice al Tour de France, la corsa che più di ogni altra ha fatto entrare El Diablo nella storia di questo sport. E per non farsi mancare nulla, spesso ne approfittava per fare capolino anche a fine stagione, in occasione dei mondiali. A chi seguisse con attenzione le vicende del ciclismo attuale balzerà subito all’occhio che la stagione di questo strano “tifoso” era più impegnativa di quella disputata ormai da buona parte dei corridori del gruppo: più fitta di appuntamenti e dunque più costosa e sicuramente faticosa. Tanto che un paio d’anni fa, a 60 anni compiuti, fu una trombosi cerebrale a rischiare di metterlo a riposo forzato. El Diablo dimostrò ancora una volta la forza della sua passione e non appena riprese salute si rimise in strada ad inseguire corridori urlando e agitando il forcone, a macinare chilometri in nome di quel ciclismo che è stata la sua vocazione sin dall’infanzia.

Didi Senft nasce 62 anni fa a Storkow, in Germania Est, alle porte di una Berlino distrutta dalla guerra ma non ancora divisa dal Muro. Da giovanissimo corre per le selezioni ciclistiche locali ma non ha il talento per accedere alle nazionali, così rinuncia presto al sogno di correre in bici ma non all’amore per la bicicletta. Inizia a lavorare in un’officina meccanica, e tra una riparazione di auto e l’altra si diverte ad inventare ed assemblare biciclette: esperimenti che negli anni diventeranno sempre più mastodontici, fino a diventare primatista mondiale per aver costruito la bicicletta (funzionante) più grande del mondo.

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Oggi è esposta nel museo a lui dedicato nel suo paese natale, in mezzo a centinaia di bici bizzarre: la più lunga del mondo, la più grande chitarra a pedali e poi la bici-Tour Eiffell, la bici-Big Ben, un gigantesco pesce a pedali e persino una bici-monumento che ricostruisce la sagoma di Michael Jackson.
La mitica figura del Diablo nasce in un banale pomeriggio davanti alla televisione: quando Didi sente un telecronista annunciare con enfasi il triangolo rosso dell’ultimo chilometro come “drappo rosso del diavolo”. Pensa che se c’è una bandiera è necessario che ci sia anche un diavolo, e decide così di fabbricarsi lo storico costume rossonero e partire per il Tour de France 1993, dando origine -forse inconsapevolmente- ad una delle figure più note del ciclismo mondiale dell’ultimo ventennio.

Da allora non c’è stata tappa del Tour o del Giro che non vedesse il Diablo presente a bordo strada e protagonista nelle immagini televisive. Amatissimo dai tifosi che fanno la coda per scattare una fotografia insieme, coccolato dalla carovana della corsa cui garantisce una visibilità inaspettata, rispettato dai corridori che amano improvvisare gag con lui nelle fasi morte della gara e non solo: memorabile fu il gesto del messicano Perez Cuapio che gli sottrasse il forcone per puntarlo in direzione di un Piepoli di cui faticava a tenere il passo in salita.

L’idea che lo ha spinto in tutti questi anni è sempre stata quella di portare sulle strade un personaggio che incitasse allo stesso modo i corridori e gli spettatori, che rendesse omaggio quindi a tutti i protagonisti di una corsa che transita per pochi minuti tra una folla di appassionati che la vive per ore.

El Diablo ha attraversato almeno due epoche del ciclismo, saltando e urlando tra trionfi e scandali, lo ha fatto fino a che ha trovato sponsor che ammortizzassero almeno le spese dei suoi viaggi, attività ancora più difficile per uno che arriva dalla Germania, unico paese d’Europa in cui il Tour de France non viene nemmeno più trasmesso in televisione – con buona pace dei successi di Kittel, Martin e Degenkolb.

In un ciclismo ideale, arriverebbe direttamente l’organizzazione del Tour a ingaggiarlo, tanta è la visbilità che gli ha portato negli anni, ma evidentemente le storie a lieto fine non fanno più parte dello sport moderno. Oggi è costretto ad abbandonare, mostrando un’altra faccia della crisi economica che sta minando le basi del ciclismo stesso: tra corse che scompaiono e squadre che chiudono, c’è spazio pure per tifosi che si ritirano, per un Diablo che appende il suo forcone al chiodo.

Con il suo addio si fa sempre più piccola la rappresentanza di un modo diverso di vivere il ciclismo. Qualche figura storica resta ancora soprattutto al nord, come quel tifoso belga che dal suo furgone con la bandiera di Criquielion distribuisce acqua e bibite a tifosi e corridori. Qualche “giovane leva” sempre poter ancora crescere, ad esempio il coccodrillo australiano Crikey Cadel che ha già annunciato che continuerà a presenziare anche oltre l’imminente ritiro del suo beniamino Evans. Ma sembrano eccezioni rare, in un pubblico sempre più spettatore passivo, impegnato a immortalare le immagini della corsa senza rendersi conto che è, o almeno dovrebbe essere, parte integrante di questo spettacolo, di quella vecchia follia che è la festa di strada del grande ciclismo. Una follia di cui El Diablo ha sempre rappresentato un elogio vivente.


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